Attacchi diffamatori del dipendente: quali tutele?

Il malessere che un dipendente a volte prova nei riguardi del proprio datore di lavoro, se pubblicamente manifestato, è in grado di determinare conseguenze anche irreparabili per il lavoratore stesso. A certificarlo è una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 27939/2021) che conferma il licenziamento di un lavoratore per aver pubblicato commenti negativi e offensivi rivolti alla sua azienda sul proprio profilo Facebook.

Nell’era digitale, è ormai consuetudine utilizzare le varie piattaforme social online anche durante il turno di lavoro. La quasi totalità delle aziende ha normato questo aspetto, seppur con la consapevolezza che è praticamente impossibile governare così tanta tecnologia concentrata in uno smartphone. Al contempo il singolo lavoratore ha acquisito la consapevolezza che le stesse attività online restano visibili agli occhi di tutti, compresi i propri datori di lavoro. Eppure, nel caso in cui un dipendente manifestasse pubblicamente il proprio odio o il proprio disprezzo nei confronti dei suoi superiori, potrebbe incorrere in licenziamento per giusta causa, motivato da insubordinazione grave, tale da compromettere il legame di fiducia tra le parti.

Ebbene, per giusta causa si intende quella che “non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro”, facendovi rientrare, in tale nozione, non solo le gravi violazioni degli obblighi contrattualmente assunti dal lavoratore, ma anche quei fatti che, pur estranei al rapporto di lavoro, ledano il vincolo di fiducia intercorrente tra il dipendente e il datore di lavoro, compromettendolo in maniera irreparabile.

In tal caso, vengono ad essere integrati, altresì, gli estremi della diffamazione (art. 595 c. 3 c.p.) per la sua potenzialità di raggiungere, proprio grazie al mezzo utilizzato, un numero indeterminato di persone, non avendo rilevanza alcuna il fatto che nel messaggio diffamatorio non venga specificato il nominativo del rappresentante dell’azienda ove facilmente individuabile, per esclusione ed in via deduttiva, nell’ambito di una ristretta cerchia di persone.

Ciò che viene ad essere lesa, com’è facile intuire, è la reputazione che la persona fisica, o in questo caso, giuridica, ha nella società e tale da configurare un vero e proprio danno all’immagine della stessa.

Da tale lesione deriva dunque un diritto al risarcimento del danno patrimoniale ex art. 2043 c.c., intendendo per esso, la “perdita dei guadagni” a causa della diminuzione della clientela dovuta al discredito subito, e del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., all’immagine e alla reputazione, diritti tutelati all’art. 2 e 3 Cost.

Dunque, come tutelarsi dagli attacchi diffamatori?

In primo luogo, sul piano penale, la persona offesa del reato potrà sporgere formale querela nel termine di 3 mesi dal momento in cui viene a conoscenza della lesione dopodiché, se vuole, può costituirsi parte civile nel procedimento penale, richiedendo il risarcimento dei danni in tal sede.

In quest’ultima ipotesi, generalmente, nel caso di condanna penale dell’imputato, viene riconosciuta alla parte civile una somma di denaro a titolo di risarcimento provvisionale limitatamente al danno già provato ed accertato, rimettendone poi l’esatta ed integrale liquidazione al giudice civile.

Peraltro, la vittima potrà richiedere anche il sequestro preventivo del sito o della pagina telematica, come, ad esempio, una pagina Facebook, contenente il commento diffamatorio incriminato, qualora il suo titolare si rifiuti di eliminare spontaneamente il commento oggetto di contestazione. Infatti, le forme di comunicazione telematica come blog o social network, sono sì espressione del diritto di manifestare liberamente il pensiero, tutelato dall’art. 21 Cost. ma non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa, poiché rientrano nei generici siti internet che non sono soggetti agli obblighi e alle garanzie previste dalla normativa sulla stampa.

In aggiunta, ovvero in alternativa al procedimento penale, la vittima potrà adire le vie giudiziarie civili al fine di ottenere il dovuto risarcimento dei danni subiti. Anche in tale ambito esiste, peraltro, uno strumento cautelare che consente di ottenere una tutela di urgenza in tempi brevi, ovvero di far cancellare il contenuto diffamatorio il prima possibile, evitando così l’eccessiva diffusione dello stesso. Si tratta, in particolare, del procedimento cautelare di urgenza ex art. 700 c.p.c, il quale potrà essere instaurato ancor prima di avviare il giudizio ordinario volto ad ottenere il risarcimento dei danni.

Nei casi in cui la pubblicazione della sentenza di condanna possa contribuire a riparare il danno arrecato, l’art. 186 c.p. e 120 c.p.c. prevedono la possibilità che il giudice, su istanza di parte, ne ordini la pubblicazione a cura e a spese della parte soccombente, mediante inserzione in uno o più giornali da lui designati.

Infine, occorre precisare che, nell’ipotesi in cui la vittima abbia agito sia civilmente che penalmente, l’eventuale esito assolutorio del giudizio penale, quand’anche definitivo, non avrà alcuna influenza nel giudizio civile di danno laddove quest’ultimo sia iniziato anteriormente alla pronuncia della sentenza penale di primo grado e l’azione civile non sia stata trasferita nel giudizio penale, nell’esercizio di una libera facoltà del soggetto danneggiato.

 

 

Dott.ssa Lucrezia Diletta de Ruggiero